lunedì 11 marzo 2013

Il covo delle Sirene

«Capo di Sorrento» e «Capo di Massa» segnano il confine tra le due capitali della penisola; Sorrento è la capitale del piano, degli aranceti e degli agrumeti e, beata e incantata, attende che la raggiunga il rettifilo delle strade da Meta, da Piano, da Positano; Massa, umile e dimessa, è la capitale degli ulivi. E da Massa, per S. Agata, è un infittirsi di paesini e di borgatelle dai sonanti nomi di predii gentilizi romani, disseminati o aggruppati per clivi e valloncelli che il nastro della strada va a ricercare pazientemente come la mazza del pastore dietro le sue pecore sbandate, fino a Nerano e a Termini che segna, proprio come il dio Termine, la fine del verde e delle case: al di là è il promontorio nudo e pelato del Monte S. Costanzo, che apre la palma della sua mano rocciosa tra la Cala di Mitigliano e la baia di Jèranto. Abbandonai quel giorno i luoghi famosi per ville e residenze celebri dall'antichità fino ad oggi, e mi diressi verso la costa inospite e selvaggia che s'apre fra la marina di Cantone e Positano, incavernata di grotte, con qualche rara borgatella di case rimaste guardinghe in alto sui costoni del Monte Tuoro; discesi alla marina di Crapolla che, con uno spacco nella muraglia delle rupi, s'apre come una fauce innanzi alle isole delle Sirene. Vi si giunge calandosi quasi a capofitto dalle ultime case di Torca, per un vallone che doveva essere un tempo un solo grande querceto; gli ultimi cento metri tra il ciglio della rupe e il mare, si discendono per una gradinata rocciosa da far invidia alla scala fenicia d'Anacapri, a volte e risvolte come il gomitolo d'una matassa; e roccia e gradini sono così lisci e consunti da prender l'opalescenza dell'onice e da far pensare alle cavità che vi ha impresso il piede nudo prensile dei pescatori che salgono e discendono con il carico del pesce. Dove la scaléa finisce e la rupe si rispiana, sono i ruderi d'una badìa dedicata a S. Pietro, sovrastante un tempo l'ingresso della baia come il tempio d'una divinità marina. Crapolla è il covo dei pescatori del mare delle Sirene; da essi, ad onta di qualche dotta etimologia, è fiorito quel sapido nome con la stessa popolaresca forma che si ha in Crapa e Crapile, e da essi è nato il culto di S. Pietro che fu pescatore di Galilea prima di essere pescatore di anime. E la marina di Crapolla sembra esser posta proprio là per servire d'approdo alle isole dei «Galli», alle isole delle Sirene. Basta sporgersi dalla rupe di S. Pietro, per vedersele allineate in rango sulla superficie dell'acqua. Sotto costa lo scoglio dell'Isca, il più fronzuto di cespugli e di piante; a mezzo il tragitto, lo scoglio di Vivàro lavato dalle onde; più oltre, a corona, il gruppo delle Sirenusse. Par quasi che siano uscite dal grembo di quella costa e che debbano entro quel grembo rientrare come una nidiata nel covo. Due delle Sirene più avventurose o più ardite adescatrici di canto, si sono staccate dal branco delle compagne: una, Partenope, è riuscita a toccare le felici spiagge di Napoli; l'altra, Leucosia, è andata a morire raminga, più lontano e più sola, a Punta Licòsa. A stabilire una stretta relazione fra le isole e la costa ci sono i ruderi romani, che di greco non resta altro che quel mitico nome dato dei primi navigatori. Ciascuna di quelle isole ha il suo impianto di abitazione, con una o più cisterne, e un molo d'approdo: e, in fondo all'insenatura di Crapolla, ci sono i resti ancora imponenti di una costruzione che, più che a una villa cacciata nello spacco d'una forra, fanno pensare o a una masseria marittima destinata a raccogliere l'olio degli uliveti di Torca e a rifornire di vettovaglie gli abitatori stabili o periodici di quelle ville sul mare, o piuttosto ad una vera e propria stazione navale per la sicurezza dell'abituale rotta di navigazione verso i porti di Pozzuoli e di Napoli. Nel medioevo, quando Crapolla divenne covo di pirati, e nessun nascondiglio sembrò più adatto per spiare e assaltare le navi che giungevano cariche di mercanzie e di viaggiatori dal porti d'oriente, i monaci della Badia, più che al lusinghiero canto delle Sirene e alle aborrite divinità pagane, dovettero pensare a difendere dai pirati barbareschi i poveri casati di Torca e a venire in soccorso di naufraghi e di scampati. Oggi s'entra nella baia di Crapolla sopra un mare di turchese o d'opale, tra due alte pareti di roccia che si richiudono al fondo in un canalone inaccessibile in mezzo a un groviglio di sterpi. Nè un molo nè un pontile di sbarco: la chiglia s'insabbia nella ghiaia con un fruscìo metallico e le barche gialle azzurre e vermiglie tirate in secco sul greto, una accanto all'altra, sono, la sola cosa viva e smagliante in quell'ombroso speco. Tre magazzini coperti d'un voltone rappresentano tutto l'abitato: potrebbero essere tre cappelle bizantine d'una sperduta isoletta greca, e non sono altro che il dormitorio e l'arsenale dei marinai di Crapolla. Al di fuori attorno a un pozzo che raccoglie l'acqua di quel canalone, c'e una fila di nasse simili a grandi ceste di vimini intrecciate con un'eleganza e un magistero da tessitori di tappeti. Nè una donna, nè un focolare: la vita dei pescatori di Crapolla è ancora quella dei naufraghi delle isole delle Sirene. Amedeo Maiuri, da "Il Giornale", domenica 03/07/1943

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